domenica 23 novembre 2014

Da padre in figlio


«Mio padre aveva sentito dire che ai bambini faceva bene mangiare carne. Così, cinico com'era, mi ingozzò di formaggio e pesce. 
Fu poi, anni dopo, che gli altri bambini, quei pochi che abitavano la classe che frequentavo, si ammalarono gravemente; qualcuno ebbe i vermi allo stomaco e al cervello, ma i muscoli ricordo che li avevano forti, più dei miei. La cosa mi turbò molto, perché avevo braccia e gambe secche secche e pareva fossi predestinato alla leggerezza. 
A differenza degli altri, mi ammalai di mio padre, e del formaggio e del pesce ne feci una questione di principio. Salute allo stato puro. Una sorta di sopravvivenza, una differenza fra me e gli altri bambini, cresciuti forti di muscoli, ma coi vermi nello stomaco e nel cervello. Non ho mai smesso di ringraziare mio padre e il suo scetticismo per avermi salvato metà anima. L'altra metà me l'ero già giocata a ramino con le donne, perdendola. 
Sono sempre stato un pessimo baro.»

lunedì 10 novembre 2014

Come fanno i cani quando non s'annusano il culo.

Avevano chiuso. E si allontanarono di schiena, ognuno con il naso rivolto dalla parte opposta, perché non sentissero neppure il loro odore; e quello fu il non amarsi più, un gesto muto, estremo. Una negazione d'identità, come fanno i cani quando non s'annusano il culo.  


sabato 18 ottobre 2014

La buonanotte di Hanky

Capita che certe notizie precipitino nella vita come bombe atomiche, distruggendo il creato intero. Altre, invece, sembrano essere lunghe pennellate di colori pastello e hanno il profumo di verbi coniugati al futuro. Spesso, entrambe, sono distribuite in un lasso di tempo piuttosto lungo; anni di provvisorio e incerto bilancio. A me è capitato, quest'anno e per la prima volta, che tutto arrivasse quasi contemporaneamente. Mi sento spiazzato, distorto, ebbro. E quindi, la buonanotte che vengo a darvi è insolita, mescolata, ma non confusa. Il mio augurio di un «Ben fatto!» per il prossimo anno arriva oggi. Buoni propositi per il 2015 con qualche mese in anticipo, in un ottobre caldo, zanzaroso e infinitamente felice. Buonanotte a chi se n'è andato e ha lasciato orme indelebili oltre l'uscio, a chi è rimasto, nonostante tutto, e a chi è appena arrivato, in questo giro di anime continuo, perpetuo. Inevitabile.

martedì 30 settembre 2014

Happiness is a warm gun

«Leggendo questa storia si potrebbe pensare "è magia!". Ma innamorarsi è un atto di magia, così come scrivere. A proposito de Il giovane Holden hanno detto "Un tale miracolo narrativo deve ancora ripetersi. La creazione di un essere umano con carta, inchiostro, stampa e immaginazione". Io non sono J.D. Saliger ma sono testimone di un rarissimo miracolo. Come potrà dirvi ogni scrittore, nella condizione più felice e fortunata le parole non sgorgano da noi, ma attraverso noi. Lei mi si è presentata da sola, io ho solo avuto la fortuna di poterla descrivere.» (dal film Ruby Sparks) 


martedì 23 settembre 2014

Ancora una notte

Pare Balzac dicesse: «Una notte d'amore è un libro letto in meno». Vero, verissimo.  Ma cos'è, allora, una notte senza l'amore? Un libro letto in più? Non credo. E poi, se l'amore è asimmetrico, sbilenco su una sola corsia (e mai quella di sorpasso) il nero delle ore piccole è l'angoscia di un pensiero che ti trapana così tanto il cervello da giorni da farti restare immobile, impaurito al pensiero di poter sognare? Sognare proprio l'asimmetria? Quella nausea che ti butta a terra e non ti fa più andare avanti? Che non ti da la voglia neanche di addormentarti nonostante la stanchezza lunga una stagione?
No, sotto deve esserci dell'altro. 
Di certo è che una notte non d'amore è un libro scritto in più. Almeno per me. Ma vorrei che la mia schiena dolesse, ricurva sulla scrivania, per una dolce lettera d'amore. Una di quelle che ero solito scrivere. Una di quelle che vorrei scrivere anche adesso ma che non avrebbero più destinatario. 
Sentirsi monchi, invalidi. 
Una cosa però l'ho capita: tempo fa, quando la mia immagine era più spigolosa di adesso, il buio faceva meno paura quando ero "due". 
Due.
Ancora una notte, questa, con i Beatles che risuonano in cuffia e la stanza che puzza di cadavere morto di paura. 
E questo è tutto, gente!

Hanky






lunedì 22 settembre 2014

Riprendere Berlino.

Ti sei chiesto come sarebbe stato riaprire la porta di casa dopo tanti mesi. Se avessi sentito un vento caldo alle spalle o un rivolo d'acqua gelata lungo la schiena. Hai pensato già al clima rigido e la tua mano non si è mai fermata di zigzagare sui fogli immacolati. 
T'eri scordato di respirare, poi te lo sei imposto. Ora hai un polmone buono e uno in attesa d'ossigeno. Quando hai afferrato la valigia e hai sentito le piccole ruote rimbombare prima dell'uscita, ti sei chiesto cosa fosse rimasto a terra prima della partenza. 
Hai fatto una piccola carrellata di tutti i volti che hai sfiorato, guardato, incrociato. Per un attimo, solo un attimo, quando ti sei specchiato involontariamente sul finestrino unto del bus, hai sovrapposto i tuoi occhi al ricordo delle lacrime asciugate. Poi hai sentito il gorgoglio del mare africano, un ricordo sudato, e hai tirato un sospiro di sollievo. 
Non hai ancora raggiunto casa, ma stai già cercando le chiavi, soffocate, ingarbugliate sotto a un ammasso confuso di oggetti e oggettini. Le hai sentite suonare. «Eccole!» hai detto.
Adesso hai sete; ce l'hai spesso quando affronti il lungo cammino del ritorno. 
Hai guardato per due volte attraverso il vetro sudicio. Fuori, hai pensato, tutte le nuove opportunità che devono ancora palesarsi; dentro, invece, portavi quello che era già successo. 
Per un piccolissimo secondo hai pensato al blu, all'odore di zucchero del nord-europa e a quello che avevi addosso dopo aver fatto l'amore. Subito una vampata di calore al petto, le mani sudate, poi la sensazione piacevole, forse obbligata, d'aver poggiato la testa sul cuscino. Le vacanze fuori porta.
Hai sospirato. 
Ormai mancano poche fermate. 
Davanti una libreria a sconti e l'ultimo tratto di strada. 
Hai ricontrollato se le chiavi fossero proprio lì dove le avevi lasciate. Hai ripensato a cosa tu possa aver dimenticato prima del distacco da terra. Hai focalizzato in mente la tua scrivania, il letto stretto, ma di colpo ti sei distratto,  hai guardato le foto sul muro, hai pensato al Natale e la tua concentrazione se n'è andata a farsi benedire. 
Ultima fermata. 
Ne hai passate tante per arrivare fino a lì. All'inizio ti sei chiesto se la strada fosse quella giusta, se il bus fosse quello su cui eri sempre salito. «Ma sì, è questo», ti sei detto per rassicurati. Del resto, ormai non aveva più senso arrovellartici, anche perché casa era vicina. 
Il bus ha frenato di colpo, poi sfiatato.
Si sono aperte le porte. 
Alle narici ti è arrivato l'odore della tua strada. 
L'hai riconosciuto. 
Sei vicino. 
Hai sfiatato pure tu e poi hai sbuffato.
Con forza hai tirato giù la valigia e di nuovo hai ascoltato infastidito le rotelline litigare contro il marciapiede. 
Portone aperto, ascensore preso e sei arrivato alla porta. 
Hai cercato ancora una volta la chiave giusta. L'hai scelta. Gli hai fatto fare mezzo giro. 
Hai sentito qualcuno entusiasta salutarti. Non ti vedeva da molto tempo. 
T'ha chiesto subito come fosse andata, mentre tu correvi verso la tua stanza. 
«Bene - hai risposto - Ho un sacco di cose da raccontarti. Una follia dietro l'altra.» 
Poi ti sei fermato. Hai sbuffato un'altra volta. 
Hai bloccato il respiro e ti sei chiesto ancora: «Cos'è che ho lasciato prima di staccarmi da terra?».
Hai portato una mano alla fronte. Inaspettata, una goccia salata t'è colata dall'angolo di un occhio, fino al bordo delle labbra. Hai finalmente capito cosa fosse, ma ti sei detto «Troppo tardi!» e ti sei ripromesso di non domandartelo più. 
Abiti sparsi sul letto. Hai guardato un'ultima volta quella foto. Poi l'hai cestinata.
Valigia vuota e vita nuova che inizia. 
Per te, uomo-razzo, era arrivato il momento di riprendere Berlino.

sabato 20 settembre 2014

Addio, mia cara estate

Torno a casa stanco. Provato. Non è stato un periodo facile.
Nelle giornate lunghe e d'isolamento ho scritto molto e letto spesso Montale. 
Il mondo che abitavo si è spopolato. Qualcuno è arrivato. Pochi sono rimasti.
Mi ricordo il mio primo compleanno con le valigie in mano, qualche anno fa, e un volto nuovo che mi stava aspettando. Pioveva, ero contento. Ricordo pure il mio sorriso in una foto scattata sul bus.
Non ho mai avuto compleanni felici che non portassero pioggia. Così sarà anche in futuro.
L'estate non è mai stata la mia stagione.
Ho visto gente passeggiare in tranquillità con i miei affetti stretti fra le mani. Si son lasciati possedere. Poco male. 
Il medico m'ha detto che guarirò, anche se sanguino ancora. 
Di quelli che hanno provato a spararmi al petto mi dimenticherò. Saranno ammassati come robe vecchie sopra la pila di panni sgualciti, strappati. Per indossarli ancora ho fatto il possibile, ma m'è toccato girare nudo. Deriso, umiliato, imbruttito.
Così si chiude questa notte, che è l'estate intera, fra l'immagine feroce di corpi nudi che ogni notte mi strazia e mi fa piangere, l'eco di un insulto lontano e i miei incubi terrificanti. La chiazza di sudore sul mio cuscino che ritrovo puntuale al mattino si trasformerà nelle lacrime di chi ha fatto di me un'isola su cui farsi una vacanza; spero, dopo tutto, che sia stata piacevole. Una notte d'amore sbagliata. Giusto il tempo di una di quelle follie che capitano solo in estate. 
Ho buttato via tutto. Amen.
Sono un'isola deserta e inaccessibile, adesso.

Ho scritto l'ultima buonanotte indossando una vecchia giacca. Si perderà nelle notti nuove di chi può farne a meno, perché altri auguri di dolci sogni hanno riempito il vuoto. 
Dovrò dimenticare i volti abbronzati di una stagione che non ho vissuto. Una stagione finalmente finita. Verrà domani l'autunno e tenderò l'orecchio alle foglie morte, osservando i rami secchi di un albero che nudo aspetterà di nuovo il verde. Vorrei essere quell'albero, ma superata l'afa, il respiro che mi è mancato per mesi, mi tocca adesso indossare un cappotto robusto per affrontare le forti piogge che cadranno. E non mancheranno nemmeno pugni forti allo stomaco.
Vi siete innamorati di nuovo. Siete stati al caldo di braccia amiche. Avete goduto delle carezze di nuove passioni. Vi siete scoperti diversi, nudi al sole, sotto una cascata gelata. Vi hanno fotografato appagati. Vi siete dimenticati delle storture. Avete scavalcato fieri il cadavere di qualcuno che conoscevate. Vi vedo ancora passeggiare con i miei brandelli di carne fra le mani. Salme sparse in un tempo passato.
Verrà il tempo per guardare vecchi volti. Per voi e per me. 

Adesso non mi rimane altro che osservare la mia vecchia faccia tracciata a matita per una conquista, digerire saliva e sangue e avere la forza di non piangere più dal petto. 
E prima di dirti addio, mia cara estate, lascio che tu goda, per l'ultima volta, di un saluto senza ritorno che sia degno di nota.

Casa sul mare (Montale) 

ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.



Adesso sì, addio. 

giovedì 11 settembre 2014

Verresti?

Vorrei portarti con me.
Resisteresti poco, al freddo senza l’afa estiva. Ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me. Ti racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello, per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto, per le volte che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato. Mangeremo e dormiremo poco, perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno, perché tre non sarei capace. Ti farei almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così, se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare. Vorrei che ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto per innamorarti, e allora è per questo che vorrei portarti con me. Per farti innamorare.
Verresti?
Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla? Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno. Come un sibilo fluttuante e sinuoso. A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente. Non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo. Per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi. Anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti? 
Italo Calvino 


venerdì 5 settembre 2014

L'abbandono di Hanky

I mutamenti, molto spesso, sono cosa buona. A me, per esempio, m'è spuntata un filino di pancetta da birra. Mai avuta. «Orrenda» direte voi e invece no.
Mi spiego. 
Stasera ho trascorso più della metà della giornata appresso ad anime splendide. Ho fatto, quasi alla rovescia, il percorso di Hanky: dal ritorno a casa, fino all'osteria. 
Ho raccontato, da buon giullare quale ho scoperto di essere, il rumore di certi passi fatti durante questi trent'anni (o quasi). Da Parigi a Londra; da Dublino a Catania. Ho sentito il calore di una mano su una coscia, lo sguardo lucido di chi mi stava davanti e il calore di un risata uscita calda da labbra accanto alle mie. Poi giù, una discesa rapida sulle disavventure passate. La promessa di un anno da trascorrere insieme e il singhiozzo di un via vai tra nord e sud. 
Bicchieri vuoti, bicchieri pieni e così via. 
Ricordando la mia, ormai, vissuta e rivissuta solitudine, davanti alla vetrina del negozio di un fotografo, m'è sembrato che certe bugie, il menefreghismo banale di un amore fatto a brandelli e il doversi ricordare particolari ormai sbiaditi dall'orrore di un sbaglio durato anni (il mio, a questo punto) fossero arrivate a una fine. Ciò che di definitivo s'aspetta. Quello che oggi è arrivato con un fotogramma abbronzato e sorridente.
E allora, a pochi passi prima di mettere piede a casa, adesso, una cosa pare essermi definitiva: c'è chi torna dal passato da vigliacco e falla il tempo nella speranza di una risposta positiva, chi, invece, arriva dal futuro, promettendo un presente poco rassicurante e che persevera vecchi sbagli, e chi, pur avendo viaggiato attraverso il tempo (dal non-tempo al tempo-diretto), mi si siede accanto e mi dice «Non preoccuparti, andrà tutto bene. Fidati». 
Tonf! E la mia mano s'affossa beata fra le sue.  
Ed è questo il mutamento di cui vi parlo. Quello buono. Un pancia rigonfia di birra, che è discussione prolungata, un cameriere ciondolante, uno sbiascico di troppo. Il passato che si sgonfia. Un bacio covato dentro lo stomaco, ora lievitato, che aspetta lo sgonfiarsi di un'effimera nottata salata, che sa di donna; di te che sei pancia gonfia e risata spontanea.  
E anche se dovessi smagrirmi, a quel paese tutti, spero che le mani di cui vi parlo perseverino nell'afferrarmi. 
Davvero. 


domenica 10 agosto 2014

Va, pensiero.

Visitammo i musei della Scala. Non riuscimmo a sentirne insieme la musica, su in piccionaia, come desideravo, ma ne godemmo comunque la gioia dei palchi alti e delle poltrone rosso velluto. Adesso, ch'io m'ascolto Verdi in notturna, come se tu mi parlassi, vedo te viverla accanto ad altra anima, seppur sicula, comunque non mia. E non provo più rancore né tristezza, solo vuoto di non essere stato io il tuo affannarti a comprare un abito scuro per accompagnare, di fianco, la mia cravatta nera. Mi dicesti «ti amo» e credo fu sincero, nonostante l'abbandono tuo repentino. E t'amo lo stesso, così t'amerò, e t'ho perdonato tutto, come il mio pensiero va e ti veste, ch'io sciocco ti creda ancora nuda, senza di me, nudo io or ora che non ci sei più; ma sarai vestita dallo sguardo di un altro e di altri ancora, che non sapranno, spero, come si soffra, com'io soffro ancora per te. E dunque «Va pensiero» il mio, immaginando la tua bocca chiusa in un sonno sereno, dov'io non ho più proprietà e non sono autore di tua serenità.

E Milano l'amo ancora.

mercoledì 6 agosto 2014

Al tratto di una matita

Il mio amore per te, e ricordalo bene, è legato al tratto di una matita. Al ricordo di un letto sudato, di un cuscino dalla federa arancio e sgualcita, che adesso mi sembra avere solo immaginato.
La mia memoria uccisa dalla massa pesante dei silenzi.
Ma il mio amore per te, ricordalo bene, ricordalo per me, è ancora qua.
Per te, sempre per te.
Anche se non esisti più.

martedì 5 agosto 2014

Ophelinha...

Ophelinha,
la ringrazio per la lettera. Essa mi ha portato dolore e sollievo allo stesso tempo.Dolore perché queste cose addolorano sempre; sollievo perché, in verità, l’unica soluzione è questa: non prolungare oltre una situazione che ormai non trova più una giustificazione nell’amore, né da una parte né dall’altra. Da parte mia, almeno, resta una stima profonda, un’amicizia inalterabile.
Lei non mi negherà altrettanto, vero?
Né lei, Ophelinha, né io, abbiamo colpa di tutto questo. Solo il Destino ne avrebbe la colpa, se il Destino fosse una persona a cui poter attribuire delle colpe.
Il Tempo, che invecchia i volti e i capelli, invecchia anche, ma ancor più rapidamente, gli affetti violenti. La maggior parte della gente, per la sua stupidità, riesce a non accorgersene, e crede di continuare ad amare perché ha contratto l’abitudine di sentire se stessa che ama. Se non fosse così, non ci sarebbe al mondo gente felice. Le creature superiori, tuttavia, sono private della possibilità di codesta illusione, perché non possono credere che l’amore sia duraturo, né, quando sentono che esso è finito, si sbagliano interpretando come amore la stima, o la gratitudine, che esso ha lasciato.
Queste cose fanno soffrire, ma poi il dolore passa. Se la stessa vita, che è tutto, passa, perché non dovrebbero passare l’amore, il dolore e tutte le altre cose che sono solo parti della vita?
Nella sua lettera è ingiusta con me, ma la comprendo e la scuso. Certo l’ha scritta con irritazione, forse perfino con dolore; ma la maggior parte della gente – uomini e donne – avrebbe scritto, nel suo caso, in un tono ancor più acerbo e in termini ancora più ingiusti. Ma lei, Ophelinha, ha un meraviglioso carattere, e perfino la sua irritazione non riesce ad essere cattiva. Quando si sposerà, se non avrà la felicità che si merita, certamente non sarà colpa sua.
Quanto a me…
L’amore è passato.
Non so che cosa desidera che le restituisca: lettere o che altro ancora.
Io preferirei non restituirle niente, conservare le sue lettere come il ricordo vivo di un passato morto come ogni passato; come un qualcosa di commovente in una vita quale la mia, in cui l’avanzare negli anni va di pari passo con l’avanzare nell’infelicità e nella delusione.
Le chiedo di non fare come la gente comune, che è sempre grossolana: che non giri la testa quando ci incontreremo; né abbia di me un ricordo in cui ci sia spazio per il rancore.
La prego, siamo l’uno con l’altro come due persone che si conoscono dall’infanzia, che si amarono da bambini e, sebbene nella vita adulta seguano altre strade e altri affetti, conservano sempre, in una piega dell’animo, il ricordo profondo del loro amore antico e inutile.
Per quanto forse “altri affetti” e “altre strade” possano concernere lei, Ophelinha, non certo me stesso. Il mio destino appartiene ad altra Legge, della cui esistenza lei è all’oscuro, ed è subordinato sempre più all’obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano.
Ma non è necessario che capisca quanto dico. Basta che mi conservi affettuosamente nel suo ricordo come io, sempre, la conserverò nel mio.
Fernando

(Lettera alla fidanzata - Fernando Pessoa) 


sabato 2 agosto 2014

La buonanotte del cavaliere inesistente

Non scrivo una buonanotte da tempo. Non molto, in realtà, ma mi sembra sia passata una vita intera dall'ultima volta. 
Quando scrivo, ormai, sarà vanità o mera abitudine, mi aspetto che qualcuno mi legga; solo che adesso, com'è già successo, spero che il mio lettore sia uno e uno solo, cioè Tu. Forse così non sarà, ma del dubbio, un dubbio che porta una firma di quattro lettere, scriverò ugualmente. 
Tornando a casa ho ascoltato "Normalmente" di Joe Barbieri. Un brano da evitare di questi tempi eppure, senza alcuna presunzione di masochismo, me lo son goduto, cantandolo a squarcia gola. Il mio concertino in solitaria. Più le note suonavano, più quelle quattro lettere si palesavano; una "s" e il resto che segue. È così. E più io rifugga certi luoghi, certi pensieri e certi brani, più i miei giorni calpestano sempre lo stesso sentiero. Lo so, è sbagliato, ma non ho mai avuto quella forza d'animo (mio Dio, chi ce l'ha?) di sorpassare, di evitare quello che andrebbe ignorato. Forse tu, a quanto ho capito, ce l'hai... 
Da molto tempo, ormai, non so più quale luce accenda i tuoi occhi, se una luce c'è ancora, e chi, non guardando sbadatamente le tue orecchie meravigliose, ti racconti nuove storie. Chi, nonostante l'insorgere di quest'estate zoppa e confusa estate, ti accarezzi le guance, quel lunghissimo braccio che tieni, o faccia qualche stupida battuta, che a volte costa caro, sulla tua frangetta che tieni lì, fissa e immutabile, per nascondere il tuo nervosismo. E spero ancora che nessuno conosca, come me, quel tuo neo sul piede... 
Più passa il tempo e più sento sfiancarsi l'addolcirsi dei ricordi, dello sforzarmi di far risuonare la tua voce nelle mie orecchie, nel nominare quell'ortaggio che sembrava definire, con un tratto deciso della tua matita, i nostri volti; gli stessi volti che hai disegnato tu e che lo hai, di proposito, fatto firmando il tuo volermi a ogni costo.
 Lo so, sono ridicolo. Scrivo sempre degli ultimi ottocento e otto giorni di sudore sopportato, scambiato, amato, ma che vuoi? Sono fatto così, lo sapevi prima e  anche adesso, probabilmente, ne sei ancora più cosciente. Un bacio lungo tutti questi giorni... un sentimento finito dopo l'aver sentito insieme una lingua francofona. 
Si scappa, si cambia, si fugge, si smette di volersi bene (non per me, mai) ma un naufrago, un Ulisse come me, non potrà mai distruggere e fare a brandelli l'idea di una Itaca, che penso sia tu, nella quale ritornare costi quel che costi. Ma forse tu sei quell'Itaca di cui mi parlano sempre tutti, quell'isola che si muove, si stacca, si stufa e vuole perdersi per le acque salate mediterranee. Io, invece, sono quell'omino barbuto che a stento riesce a tenere la rotta, una rotta fissa, che riporti, se pur con barba grigia e salata, il petto e il resto del corpo sopra la mia terra. 
Ma l'ora è tarda, il giorno pare uscire la testa tronfio, e mi tocca dover mantenere l'ennesima promessa: quella di augurarti una buonanotte prolissa ma sincera. E quindi, ora che sento i primi cinguettii, m'è d'obbligo lasciarti, ancora una volta, ma senza quella promessa che un tempo, almeno per me, dura ancora oggi e che non posso più comunicarti, perché pare che tu non ci creda mai più.
Notte, davvero. 
sempre tuo, 
come allora,
come a ogni febbraio,  
Hanky. 

mercoledì 30 luglio 2014

All'alba

Navigando
all'alba
vidi il mare calmarsi
e toccandomi gli occhi
mi resi conto
che l'orgoglio ci aveva ucciso

E non rimasero che croste di sale sul tuo ricordo dolce ormai perduto









giovedì 17 luglio 2014

L'anno a tre stagioni


Una volta ho conosciuto una ragazza, il cui valore era meno di una donna e poco più di una cagna, che aveva paura degli anni bisestili. 
«Non li capisco e io non riesco più a contare il ciclo del mio ciclo» mi disse. 
La lasciai parlare. Andò avanti con quella storia per due ore buone e cattive. Buone perché ero ancora in piedi e cattive per averle sprecate con quel mignottauro.
Non la rividi più. Per fortuna. 
Però, anni dopo (espressione che per un uomo come me può voler dire "dai tre giorni ai 24 mesi, data la mia scarsa percezione del tempo), ragionai su questa fobia bisestile e mi trovai spiazzato quando scoprii di avere anch'io una paura terribile per un particolare tipo di anno; quello a tre stagioni. 
Mi spiego. C'erano anni pieni, gonfi, obesi, con quattro stagioni inanellate con precisione, soddisfazione, benedizione, e idealizzati così:
La primavera: era un bacio con la lingua ma senza sbavature. 
L'estate: era come stare sotto le lenzuola con Claudia Schiffer ma senza lenzuola per via del caldo. Era come stare sopra il materasso, insomma.
L'autunno: puntuale come una brutta notizia accompagnata da altre cesse di brutte notizie, il mio compleanno arrivava scalciando, ma qualche regalo umano mi rimetteva in pace col mondo. 
L'inverno: non ricordo mai i miei inverni. Di solito dormo fino alla primavera. 
Ma quell'anno, così poi come altri anni a venire, si palesò quello a tre stagioni. Un nano maledetto, sgorbio e a cui gli puzzava l'alito. Monco dell'estate, per gli altri era un figone alto, brillante e ben dotato artisticamente sotto alla patta. Per me no. Mi faceva schifo e con quel piccolo problemino di fogna intestinale, mi dormiva madido di fianco e  non riuscivo a non pensare che in quella stagione Claudia Schiffer doveva starea sopra il materasso di un altro, sotto le lenzuola di un fantasma o di fianco, sudata, a chi aveva avuto l'anno ciccione dalle quattro stagioni. 
Degli anni bisestili non avevo paura, no e quella era veramente una mezza cagna scriteriata... avevo terrore dell'anno a tre stagioni. E l'unica cosa da fare era tapparmi il naso fino al mio compleanno e evitare di dormire. 

mercoledì 16 luglio 2014

Nel cielo dei bar

C'è chi lascia suonare un disco, brano dopo brano, e chi salta freneticamente da una canzone all'altra, da un disco a un altro. C'è chi corre per dimagrire e conta i chilometri fatti e chi lo fa per disintossicare il fisico dai veleni della vita quotidiana. C'è chi parla di una cosa a caso, purché il tono di voce sia quello giusto e chi sta zitto, con le labbra incollate al bordo del suo bicchiere, rispondendo alla notte con lo sguardo da duro. C'è chi preferisce sedersi all'angolo estremo di un pub per poter avere tutto sotto controllo e chi sta in piedi, al bancone, dando le spalle agli sconosciuti, che poi sconosciuti non sono mai. C'è chi scrive per malinconia, per una ferita aperta e chi per un ricordo passato, una chiave di lettura del presente o una smorfia sorniona per l'odore che avrà l'avvenire. E poi ci sono io, con un sigaro in mano, un bicchiere mezzo pieno nell'altra che osservo quello che rimane della gente, di chi è andato via, a Teo, al profumo di un'onda ormai dissoltasi e di quanti giorni sono passati credendomi quello col guizzo giusto, di aver lasciato il segno nel petto di qualcuno, un marchio sulle sue pupille, di aver perso la vista per un caschetto rosso venuto da lontano, e che alla fine, invece, d'un tratto, rendersi conto che l'unico segno ch'io ho lasciato è un cerchio bagnato, tatuato su un tavolo qualunque e un posacenere pieno di cenere di discorsi già fatti e che prima o poi qualcuno svuoterà in un puzzolente sacchetto dell'immondizia. E allora, gente, ci vendiamo al fondo di un bicchiere. Il mio inferno; il mio paradiso. Il mio cielo dei bar.

giovedì 26 giugno 2014

Quel posto che sta tra il sonno e la veglia



«Sai quel posto che sta tra il sonno e la veglia, dove ti ricordi ancora che stavi sognando? Quello è il luogo dove ti amerò per sempre». (James Matthew Barrie, “Peter Pan”)


sabato 21 giugno 2014

Si vive solo due volte

Un pallettone m'ha colpito al petto. Combattevamo dalla stessa parte. Non so come abbiamo fatto a diventare nemici. Lo siamo davvero? È questo il prezzo? Era questo il nostro obiettivo sin dall'inizio? La rabbia e la stanchezza sono gli unici due eserciti per i quali non avremmo mai rischiato la nostra vita, l'uno contro l'altro. Cosa rimane adesso? L'eco di una voce lontana che non ascolteremo più, sotto il frastuono dei nostri cannoni. 

mercoledì 18 giugno 2014

Uno più uno uguale uno

Ho trascorso la notte con i nostri due estranei. Sì, sono tornati. La camicia nera non è mancata. Si è parlato di calcio, ma non ho ben capito se riguardasse lo sport o il dolore alle mie natiche. Comunque sia, hanno chiesto di te, ma hanno usato il plurale. Ho cercato di coniugare, in silenzio, a ogni sorso, la prima persona plurale, ma mi stavo affogando. Ho tossito. Forse  m'è uscito pure un "noi", ma non lo ricordo. Il petto ha iniziato a bruciarmi. L'ho motivato con l'ennesima sigaretta che non dovevo fumare. Le mie natiche però dolevano. Poi ho pensato all'elefante rosa e m'è salito un conato di vomito. L'ennesimo. Non ho vomitato. Non c'era motivo che lo facessi. Questa storia non è vera. La camicia nera sì.
C'erano i nostri due estranei. È arrivato qualcuno con un altro bicchiere pieno. L'ho bevuto. M'hanno chiesto del mio nuovo romanzo. Ho glissato l'argomento. Poi me l'hanno richiesto e ho dovuto inventare una nuova storia, falsa. Di recente mi riesce bene farlo. Non ricordo più gli occhi. Non è vero, ma voglio inventarmene dei nuovi. Conosco i nostri nomi. «Tu ridi ancora?» Ho sentito un'eco. «Sei tu?» No, impossibile. Sono tornato a casa. Non sarai mai più tu. Ho poggiato la testa sul cuscino. Uno più uno uguale uno. «Ciao, sono Hanky, tu chi sei?» Il petto mi duole ancora. Ho pensato fosse un dolore temporaneo, ma non ho più aggiunto una motivazione alla sofferenza. «Conosco le tue labbra. Sembra di vedere me. Sono io? Mi manchi.» Ho creduto di sentire «Ti amo». No. Era solo la porta che si chiudeva. Tu. Non ho chiuso occhio e le natiche mi fanno ancora male. Poi il petto, poi di nuovo le natiche. Adesso è l'alba, il dolore è passato. Penso «noi ci siamo alzati, stiamo bene, ora». Declino la mia persona al plurale. Non ricordo chi fosse a duplicarmi. Non voglio pensarci. «Mi sono alzato, sto bene, ora». Così va meglio. Non so fare le moltiplicazioni. Uno. Questo lo so. Fino a uno so contare. Spero non mi chiedano altre operazioni matematiche. So mettere insieme due nomi, non due numeri. «Sono sveglio. Andrà bene». Ecco, andrà bene. Non devo più sommarmi. Mai più quel noi da dire. Io. Addio.


Memoriale dal convento

«Mi ami?, e lei se ne sta zitta, guardandolo soltanto, impassibile e distante, rifiutando di pronunciare quel no che lo distruggerà, o quel sì che li distruggerebbe, concludiamone dunque che il mondo sarebbe assai migliore se ciascuno si accontentasse di quello che dice, senza aspettarsi che gli rispondano, e soprattutto senza chiederlo né desiderarlo». (José Saramago)


martedì 17 giugno 2014

Sulle ali della tenerezza

«E l’amore guardò il tempo e rise, perché sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava». (Luigi Pirandello, “Poesie sparse”)


sabato 14 giugno 2014

Il dono


Mi dici che non hai dormito bene. Ti confesso 
che nemmeno io. Hai passato una nottataccia. "Anch'io". 
Siamo straordinariamente calmi e teneri l'un con l'altro 
come se avvertissimo il nostro traballante stato mentale. 
Come se ognuno sapesse cosa prova l'altro. Anche se, 
naturalmente, non lo sappiamo. Non lo si sa mai. Non importa. 
È la tenerezza che mi preme. È questo il dono 
che mi commuove e mi prende tutto questa mattina. 
Come tutte le mattine. 
(Raymond Carver, Il dono)


giovedì 12 giugno 2014

Immobile

Aveva paura. Non l'aveva corteggiata la prima volta e si convinse di non saperlo fare neanche adesso. Così rimase immobile. E rimase per sempre silenzio.



giovedì 5 giugno 2014

La nuda verità


Vado senza il tuo saluto

e chiuderò le spalle e tutto quello che ti ho dato
mi resta la speranza
una piccola casa
dove resterai mia
e ovunque io sieda saprò che qualsiasi cosa accada
il mio pensiero non baderà a distanze 
e nel giro di un istante sarò lì
perché la nuda verità
è che ti amo



pago certe debolezze 
gli stupidi rancori con i quali ho consumato giorno dopo giorno 
l'incrollabile idea che avevi di me
ma ovunque io vada saprai che qualsiasi cosa accada 
il mio pensiero non baderà a distanze 
e nel giro di un istante sarò lì
perché la nuda verità
è che ti amo
come nessuna mai
(Joe Barbieri)


Ti ho sognata


Ti ho sognata
mi sei apparsa sopra i rami
passando vicino alla luna
tra una nuvola e l'altra
andavi, e io ti seguivo
ti fermavi e io mi fermavo,
mi fermavo, e tu ti fermavi,
mi guardavi e io ti guardavo
ti guardavo e tu mi guardavi
poi tutto è finito. 
Ti ho sognata.
(N. Hikmet)


martedì 3 giugno 2014

Mr Big (Almost blue)

Ritorno a casa, a piedi, come non mi capitava più da anni. Nelle orecchie suona Almost Blue di Chet Baker. Non che avessi smesso di farlo, ma quella che ritorna a casa non è la stessa persona di qualche mese fa, ma sembra essere un Hanky passato e paradossalmente aggiornato. Eppure, la sensazione è la stessa. 


I have seen such an unhappy couple...

Le iniziali si sovrappongono. Anche i nomi si accavallano. I dolori si moltiplicano e i pezzi si dimezzano. Sì, perché ho la netta impressione di aver avuto certe parti, certi frammenti buoni di me di cui son stato depredato nel corso degli anni. 
Quando guadagno un metro in più verso casa, guardando giù, guardando la punta delle mie scarpe, mi pare di arrivare al portone con pezzi di Hanky in meno. Come se li avessi persi per strada. Come se qualcuno m'avesse veramente rapinato durante il tragitto. 
È così? Non è così? Non so rispondermi. 

Almost me...

Eppure, le donne che ho amato come fossero promesse da mantenere per tutta la vita (e così è, per me, solo per me) sono state le sole furfanti, le sole ladre delle mie cose buone. Forse è sbagliato pensarlo. Forse è ingiusto che davvero qualcuno mi abbia lasciato, per l'ennesima volta, solo al mondo. Solo al mio rientro a casa, rubando l'Hanky buono. Hanno bevuto e poi son tornate a casa soddisfatte. E via con nuovi pub, nuovi bicchieri, nuovi occhi di cui ubriacarsi. 
E io?
No, forse così non è, nonostante non riesca a pensare ad altro.

Almost you...

Ma la sbronza passa e poi l'indomani arrivano i dolori. Forti, fortissimi. Per me e per loro. Prima alla testa e poi allo stomaco. E quando questo succede, nuovi sensi di colpa si palesano come estranei che bussano alla porta. Ma sappiamo chi sono, ne conosciamo voce e forma del petto. Sappiamo pure riconoscerne l'odore. 
Io non ho sensi di colpa.
E allora ho pensato: Hanky, mettiti nella capoccia che siamo tutti sostituibili e che spesso succede davvero. Anche in amore. E che questa non è una cosa triste. È così e basta. Prima ti amano promettendoti chissà che cosa e poi ti sublimano con altro. Che sia per un pensiero concreto o per un altro essere umano, più alto, più figo, che le capisca, che sia lì quando tu non ci sarai mai. 
Puff! Via. 
«Hanky non va più bene. Soffrirà, sì, ma poi capirà.» E non ci sei più. «Sei stato solo un ponte, lo vuoi capire?» 
Puff! Via. 
«Oh! Povera stella. Soffri per amore? Che banalità. Hai creduto a quello che t'hanno detto? Che ingenuo. Ma lo dovevi sapere già che sarebbe finita male. Insomma, le donne che hai amato e che ami t'hanno sempre scaricato. Tutte. E tu ancora a menartela con questa storia delle promesse, dei sentimenti, delle cose dette, del sesso speciale... ?» 
Puff! 
E Hanky, invece, soffrirà e pagherà. Sempre. 
«Chi, quello? Acqua passata.» Un paio di giorni e sei un livido sparito. Solo che le favole di cui mi sono ubriacato m'hanno fatto sperare altro. E invece no. 
E invece potrebbe essere una grande fortuna, Hanky. A volte.
E diventi pure pazzo perché parli e scrivi in prima, seconda e terza persona. Da solo e male.
Allora: via Pantelleria, via l'amore fatto al fresco di un dammuso, via Noli, via la stazione centrale, via il muso, gli occhi, le labbra, i "ti amo" a un passo dal burrone, via le menzogne, gli sforzi, i voli, i romanzi, i baci, via lei, via loro, via tutto. 
«Sei stato fregato Hanky. Sei il solito coglione. Ancora una volta. Ancora vittima.»
Io non sono un coglione. 

Ritorno a casa, a piedi, come non mi capitava da anni. Almost blue risuona forte sotto ai lampioni. E lasciando cadere i pezzi dietro di me, mi sembra davvero di ritornare solitario, come sempre, dopo aver consumato una spalla, poggiato sul muro portante del cortile del pub, dopo tante sigarette fumate, la mano gelida che stringe l'ultimo bicchiere della notte e gli occhi di quella ragazza che, se avrò fortuna, non conoscerò mai. Mai. 

Mai più.  

Almost blue...