giovedì 30 aprile 2015

Nel lungo addio, alla falcata di un ricordo

Rientro a tarda notte, che le ore si fanno più piccole di un'unghia. Stordito, stremato; così sono in questa notte e quelle addietro. A ogni tre passi sempre la stessa domanda: dove sei? 
E nel mezzo le cose da fare, quello che vorrei diventare. 
Mi leggi? Dove sei? 
Ci perdiamo, ci spalmiamo. «Sono una persona diversa» dici. Sono diverso anch'io, ti rispondo. Cos'altro potrei essere senza di te? 
Né prima né dopo. Un passo avanti, due indietro e un salto nel vuoto. 
Mi leggi? 
Rientro a tarda ora, ogni notte. Stordito, stremato. 
Così ieri e poi ancora domani e domani e domani. 
Dici che un aereo t'ha cambiata. Così per me. Il tuo d'andata, il mio di ritorno. 
Ritornare a me. 
Tarda ora, notte per notte, e così in avanti, scollatomi in questa tortura che non subisci; a me tocca difendermi. 
Fumare. Un sigaro è solitudine. La stessa che oggi mi fa forte, che rifiuta tutti, pure l'amore e in cui mi hai costretto a vivere. 
Notte, sempre più tardi, ogni sera. 
È quasi l'alba. 
Dimmi: tu mi leggi, ancora?
Io sì e da lontano ti tengo precaria per due dita, le stesse che usavi tu e mi disegnavano occhi e labbra. 
Non il primo, nemmeno l'ultimo, sporcato dalle tue matite. 
Sei stanca, lo sono anch'io, così tanto che questo volto non è mio. 
Ma lascia che te lo chieda ancora: mi leggi?


domenica 19 aprile 2015

Siracusa è la mia città

Siracusa è meglio attraversarla di notte, da soli; magari con un mezzo Toscano acceso in mano. Bisogna camminarci sopra come fachiri e respingere continuamente la sensazione di non esserne estranei. Si fa fatica ad abbracciare, in una notte sola, l'angusto e contorto intestino. Ad infilarle le dita fra i capelli scuri e sottili, in un gesto delicato che dalla nuca, piano piano, leggero sale su alla fronte aggrottata per poi scendere brusco sopra le palpebre, scivolando sul dorso regolare del naso, fino a sfiorarle le labbra.
Siracusa è meglio attraversarla di notte e da soli, dicevo, perché è l'unico momento in cui i contorni, anziché perdersi, si definiscono, prendono identità e si raddrizzano secondo la fantasia di una pancia mezza piena di un bicchiere vuoto e la testa che si gode i fumi delle chiacchiere da bancone.
Siracusa è meglio sfiorarla di notte e sotto inganno, sì, ma sorge sempre il dubbio che il nostro fianco sia coperto da chi è riuscito a viversela quando la si raccontava sottovoce, fra il piombo e la miseria, quando un sigaro accesso scatenava, ai nasi ortigiani, meno sdegno e un cappello sporco e una gonna pennellata di polvere e fango facevano la differenza.
Siracusa è un amore nascosto, sotterraneo, che è meglio che sia di notte, così nessuno ne sarà complice e testimone.
Amo Siracusa come la baiadèra di cui sei innamorato, «come si ama una donna che non t'appartiene, che non puoi avere e che altri hanno il diritto di amare più di te».
È una lunga e silente camminata che se pur spezzata da qualche imbarazzo, sarà sempre un amore enorme. Una minuta ed elegante gigolette che ha deciso, fra tutti, che almeno per una notte sia tu il suo principe dalle scarpe rotte e la testa fasciata da una garza bagnata di sdegno e sangue.
Siracusa è l'onestà travestita da brigante, con la cravatta sporca di cioccolato e che si lascia seguire da chi, come me, spalma l'odore acre e fastidioso di un Toscano alle sue spalle, lungo i ciottoli d'Ortigia e s'aggrappa e muore sotto l'acqua scura e salata che brucia gli occhi e pare scusarci, nonostante tutto, d'aver pianto per un continuo e perenne abbandono.