domenica 13 gennaio 2013

Siracusa: una mamma ingrata.


Io non so fare. Mi spiego; appartengo a quella razza che abita il fianco destro della Sicilia, che tutto vuole, poco può e niente fa. Pur non essendo natio di questo lembo di scoglio, appartenendo più al tufo che al marmo, mi sono ritrovato complice e ladro di un modo di fare così tanto identificativo della mia Siracusa, che lo vedo spesso strisciare sui marciapiedi, agli angoli dei vicoli arancioni di Ortigia, quando sono notturni. Sopra le teste dei compaesani, come fosse fumo, che si arrotola, si attacca alla pele per qualche secondo, per poi andare via. Lo vedo nei bicchieri di whisky, che in ogni luogo vengono venduti come oro colato, pur ritrovandomi in mano una concezione diversa di vetro da taverna, di whisky, di quantità, di prezzo.
Quando passeggio e vado vagabondo fra locali, strade e negozi, mi accorgo che ognuno è timido a modo suo. Riservato in un modo così austero che sfiora la paranoia. Il rifiuto del contratto sociale. Ogni singola persone è così originale; ognuno sembra raccontarti la propria verità. Geniale, all'apparenza. Banale, dopo averla ascoltata un paio di volte da diverse anime.
Siracusa è fatta così. Abbraccia a sé tante categorie: quello geniale; quelli geniali, genialoidi, geriatri, genitori, genitrici, geometri, genitali, geni incompresi, geni compresi, generici, geroglifici. Gentaglia.
Eppure, negli ultimi anni questa grande mamma ha partorito grandi cose, grandi persone. Penso a Colpesce, a Lorenzo, ad Angelo, a Gaspare, alla mia compagna, alla birra rossa, al Buzz, al silenzio notturno, al Koala notturno. Al periodo di Pasqua, a Mario. Alla Verbavolant, al fumo blu della mia pipa. Al tabaccaio di piazza Adda. Alla solitudine. Al mio cane. A Teo.
Io non so fare e questo è un dato di fatto. E la mia vita corre sul filo della stima dei miei compaesani che ce l'hanno fatta o ancora ci stanno provando. Di molte altre persone che abitano la mia città; che mi abitano.
Sono convinto che quest'appartenenza, questo sentirmi figlio dei parti siracusani, della mia dipendenza alla mia partenza, la mia fuga costante, debba essere lodata. Debba essere premiata. Raccontata. Vissuta o, quanto meno, scritta.

domenica 6 gennaio 2013

Sicilia, amore mio.

Provo spesso a parlare e a scrivere della mia Sicilia, di "sicilianità". Di appartenenza a questa terra. Ma non è cosa facile. Non ci riesco mai in un solo racconto; e nemmeno in cento.
Quando penso a quest'isola, ai suoi isolani e al mio isolarmi, provo la stessa sensazione che si prova a descrivere la tromba di Chet Baker. Come fai? Come puoi spiegarla? Impossibile. Non perché questa domanda appartenga a quel falso mito che "il jazz non si può spiegare perché è jazz". No. Il jazz non si può spiegare, perché sarebbe inutile farlo. A che serve spiegare delle note? Spiegare il singolo capoverso di un romanzo, piuttosto che sviscerare il motivo per cui un mastro artigiano ha deciso che la sua pipa debba essere in una forma invece che un'altra?
La mia Sicilia non va esposta, insegnata. La mia Sicilia è fatta dei miei cento racconti e di altri cento. È fatta delle mie serate in un pub in stile irlandese. È fatta di quegli sguardi umidi, terrificanti, mai innocenti, dei partner da bancone. Dei bicchieri lavati fino all'ultimo non-angolo del loro fondo. Del discutere, accaniti, della qualità delle cose. Della vita che è un sempre "da farsi". Dei fallimenti perché "le gioie arriveranno". Dei lutti; tristi, neri, gialli. Delle lacrime che sembrano crisantemi. Dei pini. Tantissimi pini. Dritti, di un verde scuro che puntano all'inesistente blu del cielo. Dei tramonti. Arancioni. Di un arancione vergognoso, splendido, antico.
La mia Sicilia è una terra strana. Contraddittoria? Molto. Banale? Mai, mai e poi mai.
La mia Sicilia è una nota di Chet Baker. Americana, delle volte. Inspiegabile, spesso. Una di quelle mamme a cui vuoi bene solo quando scappi da lei e che, da quel momento in poi, amerai per tutta la vita. Anche se ci morirai sopra.
Questa Sicilia, quella di oggi, che è quella di mille anni fa, è una sorella cattiva e dispettosa. Un'amica che ti ama e che per questo ti lascia andare.
Provo spesso a scrivere della mia Sicilia, della mia "sicilianità". E tutte le volte che lo faccio, finisco sempre per sbagliare tutto. Per storpiare la sua reale natura. Cado spesso in quelle discussioni da bancone in cui uno ti chiede: «Me lo spieghi il jazz?»