martedì 30 settembre 2014

Happiness is a warm gun

«Leggendo questa storia si potrebbe pensare "è magia!". Ma innamorarsi è un atto di magia, così come scrivere. A proposito de Il giovane Holden hanno detto "Un tale miracolo narrativo deve ancora ripetersi. La creazione di un essere umano con carta, inchiostro, stampa e immaginazione". Io non sono J.D. Saliger ma sono testimone di un rarissimo miracolo. Come potrà dirvi ogni scrittore, nella condizione più felice e fortunata le parole non sgorgano da noi, ma attraverso noi. Lei mi si è presentata da sola, io ho solo avuto la fortuna di poterla descrivere.» (dal film Ruby Sparks) 


martedì 23 settembre 2014

Ancora una notte

Pare Balzac dicesse: «Una notte d'amore è un libro letto in meno». Vero, verissimo.  Ma cos'è, allora, una notte senza l'amore? Un libro letto in più? Non credo. E poi, se l'amore è asimmetrico, sbilenco su una sola corsia (e mai quella di sorpasso) il nero delle ore piccole è l'angoscia di un pensiero che ti trapana così tanto il cervello da giorni da farti restare immobile, impaurito al pensiero di poter sognare? Sognare proprio l'asimmetria? Quella nausea che ti butta a terra e non ti fa più andare avanti? Che non ti da la voglia neanche di addormentarti nonostante la stanchezza lunga una stagione?
No, sotto deve esserci dell'altro. 
Di certo è che una notte non d'amore è un libro scritto in più. Almeno per me. Ma vorrei che la mia schiena dolesse, ricurva sulla scrivania, per una dolce lettera d'amore. Una di quelle che ero solito scrivere. Una di quelle che vorrei scrivere anche adesso ma che non avrebbero più destinatario. 
Sentirsi monchi, invalidi. 
Una cosa però l'ho capita: tempo fa, quando la mia immagine era più spigolosa di adesso, il buio faceva meno paura quando ero "due". 
Due.
Ancora una notte, questa, con i Beatles che risuonano in cuffia e la stanza che puzza di cadavere morto di paura. 
E questo è tutto, gente!

Hanky






lunedì 22 settembre 2014

Riprendere Berlino.

Ti sei chiesto come sarebbe stato riaprire la porta di casa dopo tanti mesi. Se avessi sentito un vento caldo alle spalle o un rivolo d'acqua gelata lungo la schiena. Hai pensato già al clima rigido e la tua mano non si è mai fermata di zigzagare sui fogli immacolati. 
T'eri scordato di respirare, poi te lo sei imposto. Ora hai un polmone buono e uno in attesa d'ossigeno. Quando hai afferrato la valigia e hai sentito le piccole ruote rimbombare prima dell'uscita, ti sei chiesto cosa fosse rimasto a terra prima della partenza. 
Hai fatto una piccola carrellata di tutti i volti che hai sfiorato, guardato, incrociato. Per un attimo, solo un attimo, quando ti sei specchiato involontariamente sul finestrino unto del bus, hai sovrapposto i tuoi occhi al ricordo delle lacrime asciugate. Poi hai sentito il gorgoglio del mare africano, un ricordo sudato, e hai tirato un sospiro di sollievo. 
Non hai ancora raggiunto casa, ma stai già cercando le chiavi, soffocate, ingarbugliate sotto a un ammasso confuso di oggetti e oggettini. Le hai sentite suonare. «Eccole!» hai detto.
Adesso hai sete; ce l'hai spesso quando affronti il lungo cammino del ritorno. 
Hai guardato per due volte attraverso il vetro sudicio. Fuori, hai pensato, tutte le nuove opportunità che devono ancora palesarsi; dentro, invece, portavi quello che era già successo. 
Per un piccolissimo secondo hai pensato al blu, all'odore di zucchero del nord-europa e a quello che avevi addosso dopo aver fatto l'amore. Subito una vampata di calore al petto, le mani sudate, poi la sensazione piacevole, forse obbligata, d'aver poggiato la testa sul cuscino. Le vacanze fuori porta.
Hai sospirato. 
Ormai mancano poche fermate. 
Davanti una libreria a sconti e l'ultimo tratto di strada. 
Hai ricontrollato se le chiavi fossero proprio lì dove le avevi lasciate. Hai ripensato a cosa tu possa aver dimenticato prima del distacco da terra. Hai focalizzato in mente la tua scrivania, il letto stretto, ma di colpo ti sei distratto,  hai guardato le foto sul muro, hai pensato al Natale e la tua concentrazione se n'è andata a farsi benedire. 
Ultima fermata. 
Ne hai passate tante per arrivare fino a lì. All'inizio ti sei chiesto se la strada fosse quella giusta, se il bus fosse quello su cui eri sempre salito. «Ma sì, è questo», ti sei detto per rassicurati. Del resto, ormai non aveva più senso arrovellartici, anche perché casa era vicina. 
Il bus ha frenato di colpo, poi sfiatato.
Si sono aperte le porte. 
Alle narici ti è arrivato l'odore della tua strada. 
L'hai riconosciuto. 
Sei vicino. 
Hai sfiatato pure tu e poi hai sbuffato.
Con forza hai tirato giù la valigia e di nuovo hai ascoltato infastidito le rotelline litigare contro il marciapiede. 
Portone aperto, ascensore preso e sei arrivato alla porta. 
Hai cercato ancora una volta la chiave giusta. L'hai scelta. Gli hai fatto fare mezzo giro. 
Hai sentito qualcuno entusiasta salutarti. Non ti vedeva da molto tempo. 
T'ha chiesto subito come fosse andata, mentre tu correvi verso la tua stanza. 
«Bene - hai risposto - Ho un sacco di cose da raccontarti. Una follia dietro l'altra.» 
Poi ti sei fermato. Hai sbuffato un'altra volta. 
Hai bloccato il respiro e ti sei chiesto ancora: «Cos'è che ho lasciato prima di staccarmi da terra?».
Hai portato una mano alla fronte. Inaspettata, una goccia salata t'è colata dall'angolo di un occhio, fino al bordo delle labbra. Hai finalmente capito cosa fosse, ma ti sei detto «Troppo tardi!» e ti sei ripromesso di non domandartelo più. 
Abiti sparsi sul letto. Hai guardato un'ultima volta quella foto. Poi l'hai cestinata.
Valigia vuota e vita nuova che inizia. 
Per te, uomo-razzo, era arrivato il momento di riprendere Berlino.

sabato 20 settembre 2014

Addio, mia cara estate

Torno a casa stanco. Provato. Non è stato un periodo facile.
Nelle giornate lunghe e d'isolamento ho scritto molto e letto spesso Montale. 
Il mondo che abitavo si è spopolato. Qualcuno è arrivato. Pochi sono rimasti.
Mi ricordo il mio primo compleanno con le valigie in mano, qualche anno fa, e un volto nuovo che mi stava aspettando. Pioveva, ero contento. Ricordo pure il mio sorriso in una foto scattata sul bus.
Non ho mai avuto compleanni felici che non portassero pioggia. Così sarà anche in futuro.
L'estate non è mai stata la mia stagione.
Ho visto gente passeggiare in tranquillità con i miei affetti stretti fra le mani. Si son lasciati possedere. Poco male. 
Il medico m'ha detto che guarirò, anche se sanguino ancora. 
Di quelli che hanno provato a spararmi al petto mi dimenticherò. Saranno ammassati come robe vecchie sopra la pila di panni sgualciti, strappati. Per indossarli ancora ho fatto il possibile, ma m'è toccato girare nudo. Deriso, umiliato, imbruttito.
Così si chiude questa notte, che è l'estate intera, fra l'immagine feroce di corpi nudi che ogni notte mi strazia e mi fa piangere, l'eco di un insulto lontano e i miei incubi terrificanti. La chiazza di sudore sul mio cuscino che ritrovo puntuale al mattino si trasformerà nelle lacrime di chi ha fatto di me un'isola su cui farsi una vacanza; spero, dopo tutto, che sia stata piacevole. Una notte d'amore sbagliata. Giusto il tempo di una di quelle follie che capitano solo in estate. 
Ho buttato via tutto. Amen.
Sono un'isola deserta e inaccessibile, adesso.

Ho scritto l'ultima buonanotte indossando una vecchia giacca. Si perderà nelle notti nuove di chi può farne a meno, perché altri auguri di dolci sogni hanno riempito il vuoto. 
Dovrò dimenticare i volti abbronzati di una stagione che non ho vissuto. Una stagione finalmente finita. Verrà domani l'autunno e tenderò l'orecchio alle foglie morte, osservando i rami secchi di un albero che nudo aspetterà di nuovo il verde. Vorrei essere quell'albero, ma superata l'afa, il respiro che mi è mancato per mesi, mi tocca adesso indossare un cappotto robusto per affrontare le forti piogge che cadranno. E non mancheranno nemmeno pugni forti allo stomaco.
Vi siete innamorati di nuovo. Siete stati al caldo di braccia amiche. Avete goduto delle carezze di nuove passioni. Vi siete scoperti diversi, nudi al sole, sotto una cascata gelata. Vi hanno fotografato appagati. Vi siete dimenticati delle storture. Avete scavalcato fieri il cadavere di qualcuno che conoscevate. Vi vedo ancora passeggiare con i miei brandelli di carne fra le mani. Salme sparse in un tempo passato.
Verrà il tempo per guardare vecchi volti. Per voi e per me. 

Adesso non mi rimane altro che osservare la mia vecchia faccia tracciata a matita per una conquista, digerire saliva e sangue e avere la forza di non piangere più dal petto. 
E prima di dirti addio, mia cara estate, lascio che tu goda, per l'ultima volta, di un saluto senza ritorno che sia degno di nota.

Casa sul mare (Montale) 

ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.



Adesso sì, addio. 

giovedì 11 settembre 2014

Verresti?

Vorrei portarti con me.
Resisteresti poco, al freddo senza l’afa estiva. Ma sarebbe un’esperienza diversa, no? Poi ti riporterei indietro, come è giusto che sia. Ma per un po’ ti porterei con me. Ti racconterei le cose che non avrò il tempo di finire di dirti. Solo per quello, per trovare il modo che duri di più. Ti farei guardare il mare freddo, così apprezzeresti il tuo. Ti farei una foto e la lascerei nel cassetto, per le volte che avrò voglia di guardarti con i capelli scompigliati e il sorriso accennato. Mangeremo e dormiremo poco, perché non ci sarebbe il tempo; tutto quello che vorresti cercherei di dartelo. Ti farei esprimere un desiderio e lo esaudirei. Solo uno, perché tre non sarei capace. Ti farei almeno un paio di domande scomode, perché così ti fideresti di me; perché così, se ti telefonassi almeno una volta, sussulteresti un pochino e quando deciderai di andare via, ci sarà almeno una volta in cui vorrai tornare. Vorrei che ti fossi innamorata di me, per chiedermi di restare. Ma forse tu impieghi tanto per innamorarti, e allora è per questo che vorrei portarti con me. Per farti innamorare.
Verresti?
Sono un pessimo romantico, lo ammetto. È per questo che non sono riuscito a farti innamorare. Lo so che è così. Ho immaginato che potessi bastare io, con i miei modi normali e l’aria spavalda. Fintamente sicura. E del tempo, per spiegarti quello che manca, per farti vedere che ne sarebbe valsa la pena, alla fine. Ho provato, che dire, a farmi scegliere. Ho sperato. Dovevo. Era una possibilità, capisci? Come fare a metterla via, a dimenticarla? Forse aspettando, forse non era il momento. Forse io e te abbiamo un altro tempo. Sono sicuro che con qualche giorno in più, ora in più, ti avrei portato via con me. È l’idea che almeno una volta succeda, no? Hai presente? Quell’idea invasiva e sotterranea che si inabissa o si palesa e lo fa una volta sola per tutte e se l’avverti non puoi far finta di niente se hai un po’ di senno. Come un sibilo fluttuante e sinuoso. A me è successo questo: non sono riuscito a fare finta di niente. Non volevo, in fondo. Non potevo far altro che cercare di portarti con me, dal profondo. Per egoismo quasi, per farmi stare bene. Anche se sapevo di non potere. Anche se era rischioso. Anche se tu non vuoi. Anche se, infine, la tua felicità non dipende da me. E non posso fare a meno di chiedertelo di nuovo. Solo per essere sicuro.
Verresti? 
Italo Calvino 


venerdì 5 settembre 2014

L'abbandono di Hanky

I mutamenti, molto spesso, sono cosa buona. A me, per esempio, m'è spuntata un filino di pancetta da birra. Mai avuta. «Orrenda» direte voi e invece no.
Mi spiego. 
Stasera ho trascorso più della metà della giornata appresso ad anime splendide. Ho fatto, quasi alla rovescia, il percorso di Hanky: dal ritorno a casa, fino all'osteria. 
Ho raccontato, da buon giullare quale ho scoperto di essere, il rumore di certi passi fatti durante questi trent'anni (o quasi). Da Parigi a Londra; da Dublino a Catania. Ho sentito il calore di una mano su una coscia, lo sguardo lucido di chi mi stava davanti e il calore di un risata uscita calda da labbra accanto alle mie. Poi giù, una discesa rapida sulle disavventure passate. La promessa di un anno da trascorrere insieme e il singhiozzo di un via vai tra nord e sud. 
Bicchieri vuoti, bicchieri pieni e così via. 
Ricordando la mia, ormai, vissuta e rivissuta solitudine, davanti alla vetrina del negozio di un fotografo, m'è sembrato che certe bugie, il menefreghismo banale di un amore fatto a brandelli e il doversi ricordare particolari ormai sbiaditi dall'orrore di un sbaglio durato anni (il mio, a questo punto) fossero arrivate a una fine. Ciò che di definitivo s'aspetta. Quello che oggi è arrivato con un fotogramma abbronzato e sorridente.
E allora, a pochi passi prima di mettere piede a casa, adesso, una cosa pare essermi definitiva: c'è chi torna dal passato da vigliacco e falla il tempo nella speranza di una risposta positiva, chi, invece, arriva dal futuro, promettendo un presente poco rassicurante e che persevera vecchi sbagli, e chi, pur avendo viaggiato attraverso il tempo (dal non-tempo al tempo-diretto), mi si siede accanto e mi dice «Non preoccuparti, andrà tutto bene. Fidati». 
Tonf! E la mia mano s'affossa beata fra le sue.  
Ed è questo il mutamento di cui vi parlo. Quello buono. Un pancia rigonfia di birra, che è discussione prolungata, un cameriere ciondolante, uno sbiascico di troppo. Il passato che si sgonfia. Un bacio covato dentro lo stomaco, ora lievitato, che aspetta lo sgonfiarsi di un'effimera nottata salata, che sa di donna; di te che sei pancia gonfia e risata spontanea.  
E anche se dovessi smagrirmi, a quel paese tutti, spero che le mani di cui vi parlo perseverino nell'afferrarmi. 
Davvero.