mercoledì 30 luglio 2014

All'alba

Navigando
all'alba
vidi il mare calmarsi
e toccandomi gli occhi
mi resi conto
che l'orgoglio ci aveva ucciso

E non rimasero che croste di sale sul tuo ricordo dolce ormai perduto









giovedì 17 luglio 2014

L'anno a tre stagioni


Una volta ho conosciuto una ragazza, il cui valore era meno di una donna e poco più di una cagna, che aveva paura degli anni bisestili. 
«Non li capisco e io non riesco più a contare il ciclo del mio ciclo» mi disse. 
La lasciai parlare. Andò avanti con quella storia per due ore buone e cattive. Buone perché ero ancora in piedi e cattive per averle sprecate con quel mignottauro.
Non la rividi più. Per fortuna. 
Però, anni dopo (espressione che per un uomo come me può voler dire "dai tre giorni ai 24 mesi, data la mia scarsa percezione del tempo), ragionai su questa fobia bisestile e mi trovai spiazzato quando scoprii di avere anch'io una paura terribile per un particolare tipo di anno; quello a tre stagioni. 
Mi spiego. C'erano anni pieni, gonfi, obesi, con quattro stagioni inanellate con precisione, soddisfazione, benedizione, e idealizzati così:
La primavera: era un bacio con la lingua ma senza sbavature. 
L'estate: era come stare sotto le lenzuola con Claudia Schiffer ma senza lenzuola per via del caldo. Era come stare sopra il materasso, insomma.
L'autunno: puntuale come una brutta notizia accompagnata da altre cesse di brutte notizie, il mio compleanno arrivava scalciando, ma qualche regalo umano mi rimetteva in pace col mondo. 
L'inverno: non ricordo mai i miei inverni. Di solito dormo fino alla primavera. 
Ma quell'anno, così poi come altri anni a venire, si palesò quello a tre stagioni. Un nano maledetto, sgorbio e a cui gli puzzava l'alito. Monco dell'estate, per gli altri era un figone alto, brillante e ben dotato artisticamente sotto alla patta. Per me no. Mi faceva schifo e con quel piccolo problemino di fogna intestinale, mi dormiva madido di fianco e  non riuscivo a non pensare che in quella stagione Claudia Schiffer doveva starea sopra il materasso di un altro, sotto le lenzuola di un fantasma o di fianco, sudata, a chi aveva avuto l'anno ciccione dalle quattro stagioni. 
Degli anni bisestili non avevo paura, no e quella era veramente una mezza cagna scriteriata... avevo terrore dell'anno a tre stagioni. E l'unica cosa da fare era tapparmi il naso fino al mio compleanno e evitare di dormire. 

mercoledì 16 luglio 2014

Nel cielo dei bar

C'è chi lascia suonare un disco, brano dopo brano, e chi salta freneticamente da una canzone all'altra, da un disco a un altro. C'è chi corre per dimagrire e conta i chilometri fatti e chi lo fa per disintossicare il fisico dai veleni della vita quotidiana. C'è chi parla di una cosa a caso, purché il tono di voce sia quello giusto e chi sta zitto, con le labbra incollate al bordo del suo bicchiere, rispondendo alla notte con lo sguardo da duro. C'è chi preferisce sedersi all'angolo estremo di un pub per poter avere tutto sotto controllo e chi sta in piedi, al bancone, dando le spalle agli sconosciuti, che poi sconosciuti non sono mai. C'è chi scrive per malinconia, per una ferita aperta e chi per un ricordo passato, una chiave di lettura del presente o una smorfia sorniona per l'odore che avrà l'avvenire. E poi ci sono io, con un sigaro in mano, un bicchiere mezzo pieno nell'altra che osservo quello che rimane della gente, di chi è andato via, a Teo, al profumo di un'onda ormai dissoltasi e di quanti giorni sono passati credendomi quello col guizzo giusto, di aver lasciato il segno nel petto di qualcuno, un marchio sulle sue pupille, di aver perso la vista per un caschetto rosso venuto da lontano, e che alla fine, invece, d'un tratto, rendersi conto che l'unico segno ch'io ho lasciato è un cerchio bagnato, tatuato su un tavolo qualunque e un posacenere pieno di cenere di discorsi già fatti e che prima o poi qualcuno svuoterà in un puzzolente sacchetto dell'immondizia. E allora, gente, ci vendiamo al fondo di un bicchiere. Il mio inferno; il mio paradiso. Il mio cielo dei bar.