giovedì 19 dicembre 2013

Il detratto dalla felicità

"Old friends" di Dorothy Riley
Abbiamo mangiato, bevuto, parlato di Zeno, di sapidità del cibo e di vampiri. Dovevamo, in qualche modo, combattere la felicità.















martedì 17 dicembre 2013

Maledettissimo Dicembre

Dicembre è un mese per lo più pessimo. Terrorizzante come un conto salato da pagare, inodore come l'indifferenze nostre e altrui, triste e rincoglionito come quel grottesco personaggio dei problemi matematici delle elementari, di nome Marco, che non sapeva mai quante cacchio di mele aveva raccolto, comprato o mangiato. Potrebbe, però, rimanere una parte residuale, che non salta quasi mai all'occhio, profumata come la smentita di una brutta notizia. Una rimanenza basata sul falso, su una pseudo verità grigia-non-grigia, che può dare l'illusione della felicità. E noi siamo sempre stati bravi a sguazzare nella menzogna; ciechi, insomma, per un atto d'amore. Zampilli di sangue dal petto, con una mano davanti agli occhi, purché si riesca a non vederli. 

Dicembre è un mese per lo più pessimo, vi dicevo, ma a noi di un più approssimativo poco importa. Ci interessa il meno, che sa di torba, di immaginario camino acceso, di una-volta-l'anno «Buon Natale». E allora, anche quest'anno, così sia.

giovedì 12 dicembre 2013

Questo Natale un giorno ti sarà utile.

Arriva il Natale e appresso si porta pure le mega cene con parentato e altre persone del genere umano che per convenzione chiamerò "Imprevisti della natura".
A tali cene, dopo aver poggiato il primo piede oltre la soglia d'ingresso della casa "x" dell'Imprevisto "x", mi capita sempre di ricevere accoglienza con una frase secca e decisa, spinta a forza fuori dalle fauci con un entusiasmo pari a quello di un Forcone che si accende le mutande gridando a tutta gola "Viva l'Itaglia libberata" mentre sfascia il cranio di un libraio incredulo che gli risponde "Itaglia un cazzo. Qui l'unica Itaglia che c'è è quella che sta sanguinando dal mio sopracciglio".
Quest'anno, tale sentenza, per le mie orecchie, suonerà così: «Oh! È arrivato lo scrittore». Inutile dirvi che in quel momento vorrò infiammare le mie mutande anch'io, ma lasciamo perdere... Negli anni trascorsi, il mio benvenuto dato dall'Imprevisto suonava sempre uguale, ma a ogni mio progresso da adulto verso il baratro, mi si cambiava la professione, come Silvio durante le mitiche campagne elettorali. Ecco che nel 2005 era «Oh! È arrivato il musicista», nel 2008 «Oh! È arrivato il parigino» (mi chiedo ancora se l'essere parigino sia una professione a tutti gli effetti), nel 2010 «Oh! È arrivato il giornalista» e nel 2012 «Oh! È arrivato l'arrotino». Perché quest'aneddoto? Ve lo spiego subito. Dati i miei ingressi sempre meno trionfali alle cene presso l'Imprevisto, mi sono chiesto se questa cosa sia virale in ogni casa del genere siciliano e se, in un atto di grande modernità, fosse stato esportato anche al nord, magari in una casa precisa; magari a casa dei Siffredi. E immaginavo l'Imprevisto di Rocco, quando al suo ingresso gli si urlò «Oh! È arrivato il minchione», che se fosse stato detto al sud sarebbe stato un insulto incredibile, mentre a casa dei Siffredi... Non credo a un Rocco con mutande infiammate, ma la fortuna mia ha voluto che le mie professioni fossero dicibili, altrimenti vi immaginate cosa sarebbe successo se fossi stato un elettore di Forza Italia? E a voi, quale benvenuto vi è riservato?

P.s. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

venerdì 22 novembre 2013

Buonanotte al sigaro

Ho bevuto al tavolo con amici, stasera. Come sempre. Poi, un'amico, m'ha offerto un sigaro. Buono, buonissimo. M'ha raccontato che le cose vanno storte, in un momento mio che, invece, s'addrizzano. Ho fumato di gusto il sigaro, un Toscano. Storto, com'è di natura sua e proprio per natura che porta nelle nervatura, curva e deformata, è ancora più buono. Un compagno, un fratello, come chi me l'ha offerto. Ora, rientrando a casa sotto pioggia battente, m'è venuto in mente De Filippo. In una sua intervista (che adesso riporto copiaincollando da Wikipedia per pigrizia e brevità) disse «In qualunque mestiere, in qualunque professione è bene tenere conto di questo: chi lavora egoisticamente non arriva a niente. Chi lavora altruisticamente se lo ritrova, il lavoro fatto». Cerco di lavorare, di costruire e perseverare nel bene gli affetti, tirando al meno l'egoismo (capita spesso, troppo spesso di parlare di sé, di me, e nulla può a risparmiarsi) perché un sigaro offerto, buono, buonissimo, sotto un temporale è un sigaro che poi offrirò, sotto l'acqua maledetta, dopo una pozzanghera pestata, dopo un «bene a me e bene pure a te, sempre». Ecco, quindi, la mia buonanotte; a un sigaro offerto e poi tornato, ombrello sotto la pioggia, goduria di vita storta. Oggi a me e domani a te. La fortuna, intendo.

martedì 4 giugno 2013

Tre settimane tre

Tre settimane. Sono rimasto solo, isolato, per tre settimane. Dal 12 di maggio la casa base sembra lontana. Sembra una corsa a vuoto, anche se così non è. Il mio cane è lontano tre settimane, la riscrittura di un progetto è iniziata tre settimane fa e, ormai ne sono certo, tre settimane fa mi hanno infilato un imbuto in testa, che adesso è stretto e inizia a dare pure fastidio.
Tre settimane è l'unità di misura di questo mio tempo. Piccolo, striminzito tempo. Che sia un unità di misura lo so perché inizia a diventare una questione sistematica, come il progetto di una bomba atomica di un autistico fisico europeo prestato, per sbaglio, al paese sbagliato. Per quanto io possa essere una persona distratta e sparpagliata, ho capito che questo gioco delle Tre Settimane funziona così: la prima settimana l'idea nasce. Tu stai comodo sul divano, un sorso energico alla birra (tanto che ti si forma un baffo biancastro sotto al naso) e un tiro alla sigaretta di marca buona, e Click - ecco l'idea. La seconda, invece, l'idea ha bisogno di essere registrata su carta. Così, dopo sette giorni di bivacco pensieroso (e tu lo sai che stai bivaccando come un porco schifoso perché iniziano a formarsi delle piaghe da decubito sulle chiappe), ti alzi e dopo cinque passi esatti, afferri una manciata di fogli, una penna (meglio se con inchiostro viola) e Puf - scarabocchi qualcosa. Il bello viene durante la terza e ultima parte. Ormai hai fatto tutto quello che potevi e che sapevi fare. Lasci che qualcun'altro si prenda cura della tua stupida idea e Kaboom - è pronta per essere lanciata sul mondo. Ma è di una bomba che stiamo parlando? Ei, seguitemi, è una bomba e non lo è.
Dunque, dicevo... A volte, però, il processo segue la logica del contrario e, pur se assurdo, tutto inizia con l'esplosione della bomba (Kaboom), poi con il progetto su carta (Puf) e la terza si regredisce a idea (Click). Tenera, fragile, nuvolosa idea che (sistematicamente) evapora.
Da tre settimane sono solo, qui in questa casa e anche lì giù, per la strada, dove la gente mormora, calpesta chilometri di bugie e, quando meno te l'aspetti, ride. Non è una cosa da matti? La gente di colpo ride. Ride anche a me, senza nessun motivo. Io, no. Io rido poco e se penso alle "Tre Settimane" non rido più.
Dal 12 di maggio la casa base sembra lontana. Teo è lontano tre settimane e io... io mi sono perso nella strada di un possibile ritorno a casa.

domenica 13 gennaio 2013

Siracusa: una mamma ingrata.


Io non so fare. Mi spiego; appartengo a quella razza che abita il fianco destro della Sicilia, che tutto vuole, poco può e niente fa. Pur non essendo natio di questo lembo di scoglio, appartenendo più al tufo che al marmo, mi sono ritrovato complice e ladro di un modo di fare così tanto identificativo della mia Siracusa, che lo vedo spesso strisciare sui marciapiedi, agli angoli dei vicoli arancioni di Ortigia, quando sono notturni. Sopra le teste dei compaesani, come fosse fumo, che si arrotola, si attacca alla pele per qualche secondo, per poi andare via. Lo vedo nei bicchieri di whisky, che in ogni luogo vengono venduti come oro colato, pur ritrovandomi in mano una concezione diversa di vetro da taverna, di whisky, di quantità, di prezzo.
Quando passeggio e vado vagabondo fra locali, strade e negozi, mi accorgo che ognuno è timido a modo suo. Riservato in un modo così austero che sfiora la paranoia. Il rifiuto del contratto sociale. Ogni singola persone è così originale; ognuno sembra raccontarti la propria verità. Geniale, all'apparenza. Banale, dopo averla ascoltata un paio di volte da diverse anime.
Siracusa è fatta così. Abbraccia a sé tante categorie: quello geniale; quelli geniali, genialoidi, geriatri, genitori, genitrici, geometri, genitali, geni incompresi, geni compresi, generici, geroglifici. Gentaglia.
Eppure, negli ultimi anni questa grande mamma ha partorito grandi cose, grandi persone. Penso a Colpesce, a Lorenzo, ad Angelo, a Gaspare, alla mia compagna, alla birra rossa, al Buzz, al silenzio notturno, al Koala notturno. Al periodo di Pasqua, a Mario. Alla Verbavolant, al fumo blu della mia pipa. Al tabaccaio di piazza Adda. Alla solitudine. Al mio cane. A Teo.
Io non so fare e questo è un dato di fatto. E la mia vita corre sul filo della stima dei miei compaesani che ce l'hanno fatta o ancora ci stanno provando. Di molte altre persone che abitano la mia città; che mi abitano.
Sono convinto che quest'appartenenza, questo sentirmi figlio dei parti siracusani, della mia dipendenza alla mia partenza, la mia fuga costante, debba essere lodata. Debba essere premiata. Raccontata. Vissuta o, quanto meno, scritta.

domenica 6 gennaio 2013

Sicilia, amore mio.

Provo spesso a parlare e a scrivere della mia Sicilia, di "sicilianità". Di appartenenza a questa terra. Ma non è cosa facile. Non ci riesco mai in un solo racconto; e nemmeno in cento.
Quando penso a quest'isola, ai suoi isolani e al mio isolarmi, provo la stessa sensazione che si prova a descrivere la tromba di Chet Baker. Come fai? Come puoi spiegarla? Impossibile. Non perché questa domanda appartenga a quel falso mito che "il jazz non si può spiegare perché è jazz". No. Il jazz non si può spiegare, perché sarebbe inutile farlo. A che serve spiegare delle note? Spiegare il singolo capoverso di un romanzo, piuttosto che sviscerare il motivo per cui un mastro artigiano ha deciso che la sua pipa debba essere in una forma invece che un'altra?
La mia Sicilia non va esposta, insegnata. La mia Sicilia è fatta dei miei cento racconti e di altri cento. È fatta delle mie serate in un pub in stile irlandese. È fatta di quegli sguardi umidi, terrificanti, mai innocenti, dei partner da bancone. Dei bicchieri lavati fino all'ultimo non-angolo del loro fondo. Del discutere, accaniti, della qualità delle cose. Della vita che è un sempre "da farsi". Dei fallimenti perché "le gioie arriveranno". Dei lutti; tristi, neri, gialli. Delle lacrime che sembrano crisantemi. Dei pini. Tantissimi pini. Dritti, di un verde scuro che puntano all'inesistente blu del cielo. Dei tramonti. Arancioni. Di un arancione vergognoso, splendido, antico.
La mia Sicilia è una terra strana. Contraddittoria? Molto. Banale? Mai, mai e poi mai.
La mia Sicilia è una nota di Chet Baker. Americana, delle volte. Inspiegabile, spesso. Una di quelle mamme a cui vuoi bene solo quando scappi da lei e che, da quel momento in poi, amerai per tutta la vita. Anche se ci morirai sopra.
Questa Sicilia, quella di oggi, che è quella di mille anni fa, è una sorella cattiva e dispettosa. Un'amica che ti ama e che per questo ti lascia andare.
Provo spesso a scrivere della mia Sicilia, della mia "sicilianità". E tutte le volte che lo faccio, finisco sempre per sbagliare tutto. Per storpiare la sua reale natura. Cado spesso in quelle discussioni da bancone in cui uno ti chiede: «Me lo spieghi il jazz?»