Mi cerchi. Appena arrivi, ci sono quelli che prendono, pagano e scappano. Quelli che non sanno ancora chi sono e quelli che non sanno nemmeno cos'hanno. Ci sono i campioni senza valore e i perdenti senza valuta. Dopo il secondo tavolo, trovi quelli che lemosinano un po' di tabacco e quelli che te lo rifiutano. Quelli che tengono saldo alla mano il loro bicchiere e quelli che ti chiedono un sorso dal tuo, giusto per ottenebrarsi un po'. A metà sala, dove il pub non accenna nemmeno a curvarsi di un millimetro, ci sono quelli eleganti, con il calice in mano e che fingono di non aver bisogno di null'altro. Un metro più in là, dopo la bionda con gli zigomi bassi e la noia spalmata sui fianchi, con passo accorto, sfiori la schiena a chi non è ancora maggiorenne; l'hai capito incrociando uno sguardo di speranza. Poi, dopo tre falcate veloci, ci sono i falsi magri e gli abbandonati per scelta altrui, i single per caso e due coppie d'amanti per costrizione. Al bagno ci sta un ragazzo che fischietta De Gregori, che si distrae dall'arnesino alzando la testa e piscia pensando a cosa ha bevuto, a chi è uscito dalla sua vita contro la sua volontà, quanto salato sarà il conto e su quali labbra vorrebbe posarsi per riscatto. Percorsa tutta la sala, poggiati i piedi sulla corte, gli ultimi metri disponibili, insomma, trovi un fumatore con una faccia qualunque, seduto a un tavolo disordinato e con gli occhi serrati a metà, perché a quello di fianco sta raccontando un sogno così impossibile che non entrerebbe nemmeno nell'armadio di sua madre. E in fondo, quando la cassa è lontana di un viaggio d'andata e per ordinare un birra ti tocca sperare in un Dio qualsiasi, trovi me che t'aspettavo a faccia nascosta da una pinta di rossa; tu che non sei l'ultima in punta di lingua, che sul mento hai un neo per farti trovare, sempre, che non mi conosci, che hai avuto paura e ti nascondi e ti difendi, che forse te ne andrai, perché sei fatta così, che l'hai pensato almeno per cinque minuti o trenta secondi per volta. Che ti serve un bacio per non andartene, ma non hai il coraggio di farlo e finito di bere, vorresti che pagassi il conto di una vita intera, labbra contro labbra, a un'ora dall'alba. La nostra.
sabato 16 maggio 2015
martedì 12 maggio 2015
12 maggio 2013
Il 12 maggio 2013 era domenica. Poco dopo l'ora di pranzo, andai fuori a passeggiare con Teo. Sull'uscio del portone, poco prima di rientrare, piantò le zampe, fermo, immobile, lasciando che il guinzaglio s'allungasse appresso a me. Ci scambiammo lo sguardo per mezzo minuto, lui tossì e poi, stanco, socchiuse gli occhi mugugnando. Tornai indietro, indietro da lui, lo presi in braccio e gli sussurrai che l'avrei aiutato a rientrare. In casa sorseggiavano un caffè. Poi, un urlo e il pianto. Ci siamo guardati innamorati per l'ultima volta e dopo Teo non c'era più. Undici anni insieme e due senza di te.
Mi manchi. È ed questa la mia ribellione alla statistica.
giovedì 30 aprile 2015
Nel lungo addio, alla falcata di un ricordo
Rientro a tarda notte, che le ore si fanno più piccole di un'unghia. Stordito, stremato; così sono in questa notte e quelle addietro. A ogni tre passi sempre la stessa domanda: dove sei?
E nel mezzo le cose da fare, quello che vorrei diventare.
Mi leggi? Dove sei?
Ci perdiamo, ci spalmiamo. «Sono una persona diversa» dici. Sono diverso anch'io, ti rispondo. Cos'altro potrei essere senza di te?
Né prima né dopo. Un passo avanti, due indietro e un salto nel vuoto.
Mi leggi?
Rientro a tarda ora, ogni notte. Stordito, stremato.
Così ieri e poi ancora domani e domani e domani.
Dici che un aereo t'ha cambiata. Così per me. Il tuo d'andata, il mio di ritorno.
Ritornare a me.
Tarda ora, notte per notte, e così in avanti, scollatomi in questa tortura che non subisci; a me tocca difendermi.
Fumare. Un sigaro è solitudine. La stessa che oggi mi fa forte, che rifiuta tutti, pure l'amore e in cui mi hai costretto a vivere.
Notte, sempre più tardi, ogni sera.
È quasi l'alba.
Dimmi: tu mi leggi, ancora?
Io sì e da lontano ti tengo precaria per due dita, le stesse che usavi tu e mi disegnavano occhi e labbra.
Non il primo, nemmeno l'ultimo, sporcato dalle tue matite.
Sei stanca, lo sono anch'io, così tanto che questo volto non è mio.
Ma lascia che te lo chieda ancora: mi leggi?
domenica 19 aprile 2015
Siracusa è la mia città
Siracusa è meglio attraversarla di notte, da soli; magari con un mezzo Toscano acceso in mano. Bisogna camminarci sopra come fachiri e respingere continuamente la sensazione di non esserne estranei. Si fa fatica ad abbracciare, in una notte sola, l'angusto e contorto intestino. Ad infilarle le dita fra i capelli scuri e sottili, in un gesto delicato che dalla nuca, piano piano, leggero sale su alla fronte aggrottata per poi scendere brusco sopra le palpebre, scivolando sul dorso regolare del naso, fino a sfiorarle le labbra.
Siracusa è meglio attraversarla di notte e da soli, dicevo, perché è l'unico momento in cui i contorni, anziché perdersi, si definiscono, prendono identità e si raddrizzano secondo la fantasia di una pancia mezza piena di un bicchiere vuoto e la testa che si gode i fumi delle chiacchiere da bancone.
Siracusa è meglio sfiorarla di notte e sotto inganno, sì, ma sorge sempre il dubbio che il nostro fianco sia coperto da chi è riuscito a viversela quando la si raccontava sottovoce, fra il piombo e la miseria, quando un sigaro accesso scatenava, ai nasi ortigiani, meno sdegno e un cappello sporco e una gonna pennellata di polvere e fango facevano la differenza.
Siracusa è un amore nascosto, sotterraneo, che è meglio che sia di notte, così nessuno ne sarà complice e testimone.
Amo Siracusa come la baiadèra di cui sei innamorato, «come si ama una donna che non t'appartiene, che non puoi avere e che altri hanno il diritto di amare più di te».
È una lunga e silente camminata che se pur spezzata da qualche imbarazzo, sarà sempre un amore enorme. Una minuta ed elegante gigolette che ha deciso, fra tutti, che almeno per una notte sia tu il suo principe dalle scarpe rotte e la testa fasciata da una garza bagnata di sdegno e sangue.
Siracusa è l'onestà travestita da brigante, con la cravatta sporca di cioccolato e che si lascia seguire da chi, come me, spalma l'odore acre e fastidioso di un Toscano alle sue spalle, lungo i ciottoli d'Ortigia e s'aggrappa e muore sotto l'acqua scura e salata che brucia gli occhi e pare scusarci, nonostante tutto, d'aver pianto per un continuo e perenne abbandono.
Siracusa è meglio attraversarla di notte e da soli, dicevo, perché è l'unico momento in cui i contorni, anziché perdersi, si definiscono, prendono identità e si raddrizzano secondo la fantasia di una pancia mezza piena di un bicchiere vuoto e la testa che si gode i fumi delle chiacchiere da bancone.
Siracusa è meglio sfiorarla di notte e sotto inganno, sì, ma sorge sempre il dubbio che il nostro fianco sia coperto da chi è riuscito a viversela quando la si raccontava sottovoce, fra il piombo e la miseria, quando un sigaro accesso scatenava, ai nasi ortigiani, meno sdegno e un cappello sporco e una gonna pennellata di polvere e fango facevano la differenza.
Siracusa è un amore nascosto, sotterraneo, che è meglio che sia di notte, così nessuno ne sarà complice e testimone.
Amo Siracusa come la baiadèra di cui sei innamorato, «come si ama una donna che non t'appartiene, che non puoi avere e che altri hanno il diritto di amare più di te».
È una lunga e silente camminata che se pur spezzata da qualche imbarazzo, sarà sempre un amore enorme. Una minuta ed elegante gigolette che ha deciso, fra tutti, che almeno per una notte sia tu il suo principe dalle scarpe rotte e la testa fasciata da una garza bagnata di sdegno e sangue.
Siracusa è l'onestà travestita da brigante, con la cravatta sporca di cioccolato e che si lascia seguire da chi, come me, spalma l'odore acre e fastidioso di un Toscano alle sue spalle, lungo i ciottoli d'Ortigia e s'aggrappa e muore sotto l'acqua scura e salata che brucia gli occhi e pare scusarci, nonostante tutto, d'aver pianto per un continuo e perenne abbandono.
venerdì 30 gennaio 2015
Capita mai, anche a te?
E il mio amore per te ha vinto il tempo.
E mi veste e mi trucca gli occhi,
ogni giorno.
Mi chiedo se,
anche a te,
capita che il petto cada sul pavimento
e non ci sia giornata che il mio nome,
così come il tuo per me,
suoni forte,
attraverso il chiasso delle cose da fare,
delle persone amate da qualche minuto,
oltre la crudeltà dei mesi abbandonati.
Se hai pensato
che la barba arricciata di un uomo mediocre
sia più profumata della mia,
una cosa su cui appoggiarci le labbra,
una qualità in più,
rispetto al ragazzo che ti ha abbracciato per anni.
Se la distanza sia ancora cosa forte.
Se quello che leggi di me
sia abbastanza per tenerti lontana.
Lontana da me.
Se anche a te capita di pensarmi,
così come a me succede di sognarti,
di non dormire
per quanto,
ancora,
t'amo,
rendendomi ridicolo,
inerte
e terribilmente debole.
Esposto alla gogna.
Mi chiedo: a te, tutto questo, è successo?
O, forse, sono io soltanto,
da qua giù,
basso, magro, spiantato e senza alcun consenso di fama,
a essere l'unico idiota a ricordarti,
bagnandomi il viso di lacrime,
rischiando che sia la tua mano,
la prima,
a lanciare uova marce sulla mia faccia?
lunedì 19 gennaio 2015
Inviti superflui
Vorrei che tu venissi da me una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.[...]Io chiederei "Ti ricordi?", ma tu non ricorderesti. [...] Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un'altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!", ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. [...] Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. [...] E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E' inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. [...] Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
(Inviti superflui - Dino Buzzati)
lunedì 5 gennaio 2015
Ricordati
Ricordati di quello che sei stata,
di me e delle pipe.
Ricordati delle estati,
le ultime,
e ricordati di quelle passate
quando eri alta meno di me
e io non c'ero.
Ricordati del freddo,
della pioggia che hai sfidato,
di me che ti riscaldavo.
Ricordati di febbraio,
della primavera e dei capodanni;
non c'eravamo che io e te.
Che altro serviva?
Ricordati di quando avevi meno,
dei tuoi "no" alle amiche
perché io ero abbastanza
e lo eri anche tu
per me.
Ricordati degli aerei,
delle valigie colme,
di me all'aeroporto,
di te che m'aspettavi
finalmente
per un bacio nuovo.
Ricordati dei bus,
della nebbia nordica,
di due materassi che ne facevano uno,
grande.
Ricordati del mio corpo
e del tuo incollato al mio.
Ricordati delle ore in cui abbiamo sudato.
Ricordati del tuo agosto,
l'ultimo,
e del mio novembre.
Ricordati delle lettere,
della tua devozione
e del mio
spaventoso
appartenerti.
Ricordati chi sei
e sei puoi,
quando avrai un minuto di gioia,
di tenero amore,
ricordati di me.
Ricorda.
Ricordami
anche se non sei più tu.
domenica 23 novembre 2014
Da padre in figlio
«Mio padre aveva sentito dire che ai bambini faceva bene mangiare carne. Così, cinico com'era, mi ingozzò di formaggio e pesce.
Fu poi, anni dopo, che gli altri bambini, quei pochi che abitavano la classe che frequentavo, si ammalarono gravemente; qualcuno ebbe i vermi allo stomaco e al cervello, ma i muscoli ricordo che li avevano forti, più dei miei. La cosa mi turbò molto, perché avevo braccia e gambe secche secche e pareva fossi predestinato alla leggerezza.
A differenza degli altri, mi ammalai di mio padre, e del formaggio e del pesce ne feci una questione di principio. Salute allo stato puro. Una sorta di sopravvivenza, una differenza fra me e gli altri bambini, cresciuti forti di muscoli, ma coi vermi nello stomaco e nel cervello. Non ho mai smesso di ringraziare mio padre e il suo scetticismo per avermi salvato metà anima. L'altra metà me l'ero già giocata a ramino con le donne, perdendola.
Sono sempre stato un pessimo baro.»
lunedì 10 novembre 2014
Come fanno i cani quando non s'annusano il culo.
Avevano chiuso. E si allontanarono di schiena, ognuno con il naso rivolto dalla parte opposta, perché non sentissero neppure il loro odore; e quello fu il non amarsi più, un gesto muto, estremo. Una negazione d'identità, come fanno i cani quando non s'annusano il culo.
sabato 18 ottobre 2014
La buonanotte di Hanky
Capita che certe notizie precipitino nella vita come bombe atomiche, distruggendo il creato intero. Altre, invece, sembrano essere lunghe pennellate di colori pastello e hanno il profumo di verbi coniugati al futuro. Spesso, entrambe, sono distribuite in un lasso di tempo piuttosto lungo; anni di provvisorio e incerto bilancio. A me è capitato, quest'anno e per la prima volta, che tutto arrivasse quasi contemporaneamente. Mi sento spiazzato, distorto, ebbro. E quindi, la buonanotte che vengo a darvi è insolita, mescolata, ma non confusa. Il mio augurio di un «Ben fatto!» per il prossimo anno arriva oggi. Buoni propositi per il 2015 con qualche mese in anticipo, in un ottobre caldo, zanzaroso e infinitamente felice. Buonanotte a chi se n'è andato e ha lasciato orme indelebili oltre l'uscio, a chi è rimasto, nonostante tutto, e a chi è appena arrivato, in questo giro di anime continuo, perpetuo. Inevitabile.
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