«L’eco dei tuoni rimbombava minacciosa fuori dalla porta d’ingresso del ristorante. La pioggia nera di quella notte siracusana si era fatta, per qualche ora, schermo d’acqua e aveva diviso il bene dal male, il mare aperto dalle acque stantie dello stagno.
L’aria era satura di polvere da sparo e l’odore ferroso del sangue si faceva largo fra i fumi brumosi dei revolver.
Il corpo della donna era ricoperto da una decina di foto non più grandi di un portafogli. Aveva gli occhi spalancati sul nulla e la carne del viso sbiadiva a ogni goccia di sangue che le colava dalla fronte. Le mani s’erano disperse sul freddo pavimento; non si sarebbero mai più ricongiunte.
La bocca era aperta e al di là dei denti, le labbra sembravano pronunciare la lettera “G”, lasciando che il resto del nome fosse ingoiato dal cadavere di un amore finito.
Accanto a lei, Antonio Gurciullo stava disteso privo di conoscenza, con i baffi umidi dallo spavento e il cuore stritolato in un pugno di dolore. La ferita d’arma da fuoco che aveva sul fianco stava peggiorando.
L’amore l’aveva ingannato.
A meno di un metro da lui, Paolo Portanova sanguinava da una gamba. Aveva il braccio destro mezzo rotto e il dolore alle spalle era feroce, come se avesse alzato, tutto solo, il peso di quel- la storia maledetta dove la sete di potere e di vendetta aveva infilzato le proprie unghie, imbevute di veleno, nelle carni molli dell’amore.
Arrancava. Cercò di tamponare la ferita di Antonio Gurciullo con un lembo dei suoi pantaloni, ma sapeva già che metterci una pezza sopra non gli avrebbe salvato la vita.
«Gurciullo riesci a sentirmi?» disse schiaffeggiandolo su una guancia. «Resta sveglio... resta sveglio.»
Corse zoppicando da una stanza all’altra, lasciandosi alle spalle i due corpi, tracciando una scia di sangue sottile e irregolare per tutta la cucina.
Raggiunse la sala da pranzo dove Iannelli giaceva a faccia in giù, riverso sulle mattonelle in cotto. Si chinò su di lui e lo rigirò da un lato, con la pancia che puntava al tetto. Una macchia scura copriva sia il ventre che parte dei pantaloni. Sul viso era tatuata la smorfia cattiva della paura. Puzzava di piscio e di cane bagnato.
Gli tastò il polso. Era ancora vivo.
All’appello mancava un solo cadavere che avrebbe fatto la sua comparsa più tardi, quasi per caso, con lo stesso ritardo con cui un uomo si rende consapevole dei propri errori, quando tutto è irrimediabilmente compromesso.
Andò alla cassa, dove sapeva già esserci un telefono. Alzò la cornetta e compose il numero della centrale di polizia.
«Camurro?»
«Commissario, che succede?» disse sentendo la voce flebile del suo superiore.
«Manda un’ambulanza in via Delle Carceri Vecchie n.5. Fai prest...»
Non riuscì nemmeno a finire la frase.
Trascinò con sé il telefono aggrappandosi al filo riccioluto del- la cornetta. Gli occhi gli si chiusero con la lentezza con la quale una piuma cade a terra dopo una danza scomposta a mezz’aria. Vide la luce affievolirsi. Gli restò solo una piccola fessura che affacciava appena sulla vita, poi cadde svenuto per terra, come fan- no i pesci senza il loro mare, liberati dall’amo e scaraventati in barca in preda all’asfissia.
L’apparecchio gli cadde sulla fronte lacerandogli un sopracciglio. Sentì il rumore di uno squarcio violento sopra la testa e quando la cornetta gli si poggiò sul petto, la pioggia smise di cadere rimestando la verità e l’inganno.
E così come era iniziata dallo squillo stridulo del telefono dell’agente Camurro, adesso si concludeva allo stesso modo, abbandonando i protagonisti di questa storia nella melma putrescente della menzogna.
Il cielo di carta di Portanova si stava strappando.»
Il cielo di carta di Portanova si stava strappando.»
«Dalla terra di Sciascia e Camilleri, un noir scritto come Dio comanda.»
(Bruno Morchio)
«I Commissari del giallo italiano dovrebbero essere commissariati. Sono troppi. Alcuni dovrebbero essere degradati. Altri, tra cui il commissario Portanova, meriterebbero. dopo una attenta lettura, la promozione a vice questore.»
(Andrea G. Pinketts)
«Siracusa è la sua città d’adozione e questo primo libro è quasi un omaggio alla sua bellezza.»
(L’Espresso)
«"Il gioco delle sette pietre" è un'esplosione di sentimenti ed emozioni.»
(Giallomania.it)
«Un giallo “accomodato", che lascia la bocca amara e fa ballare, sullo sfondo, torbidi giochi passionali e subdoli intrighi di potere.»
(MilanoNera)
«È scritto bene [...] Descrittivo e narrativo fino al particolare, diventa fluido ed essenziale quando il dipanarsi della trama lo richiede. E poi è amaro, molto amaro, con una visione disincantata della vita e un’accusa, nemmeno tanto velata, contro una mentalità para-mafiosa che qui, per imporsi, non ha bisogno di gesti eclatanti, di stragi, di ammazzamenti, ma di opportuni comportamenti, di piccoli gesti e di ripetute omissioni. Elementi indispensabili per alimentare una palude che inghiotte tutto e tutti e che condiziona la vita di una terra che pare aver smarrito la speranza.»
(Marco Della Croce)
«Già è un bel leggere, per di più “Il gioco delle sette pietre” è ben scritto, Minnella sa creare l’atmosfera, già nel far vibrare l’aria del mare e della terra, nella noia esistenziale del poliziotto, nella sua necessità di pulizia e moralità.»
(Gazzetta di Mantova)
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